Che cosa è il movimento?

Cominciamo presentandoci. Siamo cinque, una donna e quattro uomini che vivono a Leeds, una grossa città nel nord dell’Inghilterra. Tutti lavoriamo come lavoratori immateriali – sanità, educazione, informazione e design. Ci siamo conosciuti negli ultimi anni, quattro di noi hanno fatto insieme lavoro politico per più di un decennio. Siamo compagni, ma soprattutto siamo amici e queste cose sono inseparabili, le riunioni politiche sono un’occasione per spettegolare e quando ci incontriamo socialmente parliamo di “politica”.

Condividiamo un retroterra nel movimento anarchico. I quattro di noi che si conoscono da più tempo sono stati membri del gruppo anarchico nazionale Class War, che pubblicava un giornale con questo nome. Eravamo parte della combattiva minoranza che si batté con successo per lo scioglimento dell’organizzazione (nel 1997). Eravamo convinti che l’organizzazione non aveva più utilità e non era più capace di legarsi a nuove, entusiasmanti forme di lotta, come i movimenti anti-roads. Partecipammo all’organizzazione della conferenza Bradford May Day ‘98, per discutere la situazione nel Regno Unito, il fallimento dei gruppi rivoluzionari, le nuove forme di protesta ecc. La conferenza era ispirata dagli Intercontinental Encounters for Humanity and Against Neoliberalism (gli encuentros), che si erano tenuti nel 1996 in Chiapas e nel 1997 in Spagna. La conferenza di Bradford riunì centinaia di anarchici: incontrammo la quinta persona del gruppo in questa conferenza.

Per sostenere il successo della conferenza di Bradford, continuammo a organizzare discussioni aperte su base locale. Negli ultimi quattro anni ci siamo incontrati regolarmente, leggendo e discutendo articoli e libri, in particolare il primo volume del Capitale di Marx, riuscendo a capire di più sulla vita che noi stessi conduciamo. Abbiamo cercato di esprimerci con la scrittura, ma in questo la nostra è discontinua.

La lista dei “problemi”

Pensiamo che gli eventi e i processi descritti nella lettera aperta di “DeriveApprodi” ai movimenti europei siano enormemente importanti. Condividiamo l’entusiasmo di fronte all’emergere di un nuovo movimento che si descrive, e che viene descritto, come anticapitalistico. Sembra significativo che tanti raggruppamenti sociali diversi si uniscano, sia per cercare un terreno comune sia per esplorare le loro differenze. Un decennio fa, per esempio, noi avremmo evitato il coinvolgimento di pacifisti, verdi, cristiani e gente dei partiti di sinistra. Adesso siamo molto più aperti a queste possibilità. Abbiamo anche notato la crescente politicizzazione di una nuova generazione. E quel che più conta, la politicizzazione sembra più veloce di un tempo, forse per il declino di molte delle vecchie forme di mediazione, come le organizzazioni di base dei partiti (del Labour Party), del sindacato ecc. Assistiamo alla formazione di rivoluzionari fast track, che un giorno leggono No Logo, il giorno dopo boicottano McDonald’s e il successivo tirano una pietra contro una vetrina e si battono con la polizia.

Tuttavia troviamo difficile riferirci a molti dei problemi, se non in modo tangenziale. La ragione principale è che le questioni adottano implicitamente un’interpretazione del movimento che ha sempre meno senso per noi. Cerchiamo di spiegarci tracciando lo sviluppo del nostro pensiero nell’ultimo decennio o giù di lì.

1992–1997

Le nostre idee si sono trasformate attraverso le lotte degli anni Novanta. Siamo stati influenzati dal movimento anti-roads, dal movimento free-festival/free-party e dalla campagna contro il Decreto di giustizia criminale del governo che ha definito la techno come “caratterizzata da una serie di beat ripetitivi”. Sono emersi due aspetti da queste lotte.

L’enfasi sulla necessità di provar piacere, di ridere, il fatto che non si trattasse solo di lottare contro il capitale, ma anche di andare oltre il capitale. Così Reclaim the Streets non solo ha chiuso le strade al traffico, ma ha messo a disposizione dei sound system permettendo alla gente di ballare per strada. Le dimostrazioni contro il Decreto di giustizia criminale hanno preso la forma di feste di strada, piuttosto che di noiosi cortei. La gente si travestiva e ballava. Mentre i cortei della sinistra vecchio stile sembravano dimostrare il nostro potere a qualche esterno nemico, questi eventi erano invece un esperimento su possibili forme di vita futura. Reclaim the Streets non rivendicava la chiusura delle strade, la metteva in atto. Si esercitava potere.

In secondo luogo, i soggetti di queste lotte non erano tradizionali militanti politici. Pochi di loro avevano retroterra nella scena anarchica o nei partiti di sinistra. La maggior parte di quelli che organizzavano i free parties voleva semplicemente ballare e passare del tempo in modo piacevole, senza dover tirar fuori un sacco di soldi. Ma questa gente si è politicizzata quando lo Stato ha colpito mettendo fuori legge e attaccando i parties, e imponendo il decreto. Una parte dei partecipanti sembrava inoltre abbastanza middle class.

In effetti, è a causa della inusuale composizione di queste lotte che molti nella sinistra, compreso il caso di Class War, erano incapaci di prendere sul serio queste lotte. Questo suona paradossale nel caso di Class War, dato che la novità di Class War, ai suoi inizi, nell’84, era l’enfasi sul potere operaio, sia contro che al di là del capitale. La maggior parte dei giornali di sinistra vedevano solo vittime. Il fallimento della sinistra ortodossa nel capire queste nuove lotte era dovuta al primato dell’identità rispetto alla pratica. Così in Class War.

Un punto alto di questa storia fu March for Social Justice/Never Mind the Ballots, uno street party di massa prima delle elezioni politiche del 1997. L’evento fu il risultato di una collaborazione tra Reclaim the streets e i portuali licenziati di Liverpool.

Questa collaborazione fu significativa perché rappresentava l’incontro di due gruppi sociali differenti. Le feste di Reclaim the streets, a Londra e nelle altre città sono continuate nella seconda metà degli anni Novanta.

1998–2002

Durante gli ultimi cinque anni abbiamo visto un ciclo crescente di proteste internazionali. Nel 1998 contro il summit del G8 a Birmingham, e infine N30, soprattutto a Seattle, eventi sparsi dovunque il primo maggio 2000, dimostrazioni contro il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale a Praga, manifestazioni mondiali il 1° maggio del 2001, proteste contro l’Ue a Göteborg e contro il summit G8 a Genova a luglio e così via. Queste proteste internazionali sembrano annunciare l’emergenza di un movimento contro il capitale che ha continuato a crescere almeno fino all’11 settembre.

Siamo stati molto ispirati da questa serie di proteste, ma abbiamo anche cominciato a provare un certo disagio. Non potevamo fare lunghi viaggi per partecipare a questi eventi, che sempre più sono diventati vere e proprie azioni teatrali. Perché farsi un viaggio di trecento chilometri o più per dimostrare contro il capitalismo quando il rapporto capitalistico è tutto intorno a noi e dentro di noi? Tutto questo ha cominciato a sembrarci un lavoro, e quando siamo riusciti a rubare qualche giorno al lavoro abbiamo preferito andarcene a fare delle scampagnate con amici e bambini, o farci un viaggio al mare. Come si può dimostrare contro un rapporto sociale? E come si possono descrivere i centri finanziari, quali la City di Londra, come il cuore del capitale?

Questi interrogativi sono cresciuti nel dibattito sull’attivismo che è stato provocato dall’articolo Give up Activism, pubblicato da Reclaim the streets nella collana “Reflections”. Abbiamo cominciato a sentire che molti concepivano il movimento come una serie di eventi tipo conferenze, il cui scopo sarebbe discutere, accordarsi e poi andare in giro per il mondo a spargere la “buona parola”. Noi al contrario abbiamo cominciato a sostenere (seguendo Tronti) che il movimento si unirà nella lotta, e si costituirà attraverso la lotta.

A noi pareva che alcuni attivisti vedessero il mondo in termini di noi, loro e loro: un “loro” sono i capitalisti e le loro organizzazioni, molto intelligenti e forse onnipotenti. L’altro “loro” sono la classe operaia, la gente ordinaria, complice ignorante e/o troppo letargica per fare qualcosa. Il “noi” non è problematico, e ben definito: noi siamo quelli che hanno l’illuminazione. Questa visione del mondo non è molto utile. In effetti somiglia al modo in cui parlava la sinistra tradizionale: dato che gli operai non sono politicizzati o attivi, hanno bisogno di essere educati e preparati al loro ruolo storico. Se non sei parte della soluzione, sei parte del problema. Naturalmente questo approccio si rispecchia in un’altra tendenza: critica spietatamente gli attivisti, ma vedere un proletariato idealizzato “là fuori” che spontaneamente fa le azioni giuste. Noi siamo stati vittima di entrambi gli approcci. Noi vediamo parte della lotta contro il capitale come una lotta per dissolvere questa separazione tra attivismo e vita, per trascendere le identità attivista/non attivista.

Queste esperienze, osservazioni e dibattiti ci spinsero a confrontarci con quella che divenne la questione principale: che cosa è il movimento anticapitalistico e chi è parte di esso? Forse il movimento anticapitalista include coloro che danzavano nelle strade al Carnevale contro il capitalismo a Londra nel 1999 e quelli che hanno preso le strade di Genova nel 2001. Il movimento può comprendere quelli che stavano nelle strade di Seattle anche se si battevano contro la globalizzazione e non contro il capitalismo. Ma include anche, per esempio, quelli che cercarono di difendere i magazzini Nike contro la violenza dei dimostranti di Seattle, o certi pacifisti di Genova che avrebbero attaccato con dei bastoni membri del black bloc? Dobbiamo considerarne parte anche coloro che hanno accettato di incontrare capi di Stato come Blair o Putin?

Le nostre idee sono state influenzate da una serie di altri eventi che hanno avuto luogo in Gran Bretagna negli ultimi anni. Nel 2000 abbiamo visto i blocchi dei depositi di petrolio da parte di contadini che protestavano contro gli aumenti nei prezzi di carburante. L’anno seguente abbiamo visto le proteste popolari contro i pedofili. Abbiamo viso anche la crescita del partito di estrema destra British National Party. Tutte queste cose sono state decisamente reazionarie eppure abbiamo cercato di comprenderle come emergenza di un “movimento anticapitalistico”.

La crisi provocata dalle proteste per il carburante ha portato a una varietà di comportamenti interessanti. Parecchia gente ha usato la scusa della scarsità di carburante per non andare a lavorare. Altri hanno sviluppato relazioni con i loro vicini e colleghi. I negozi rimanevano senza latte e senza pane eppure si potevano vedere le mucche pascolare e il grano crescere nei campi, e girava la domanda: perché viviamo così?

Le proteste contro i pedofili presero forme estremamente reazionarie: molti individui sono stati attaccati da folle che li volevano linciare, spesso con grandi fraintendimenti. In un caso è stato minacciato un pediatra. Certamente l’abuso sessuale di bambini è un sintomo estremo della sessualità pervertita in questa società. Al presente non abbiamo risposte alla questione dell’abuso sessuale, ma la paranoia e la caccia alle streghe non sono utili. Il Bnp naturalmente è razzista e nemico degli immigranti. In entrambi questi casi il “nuovo mondo possibile” proposto è uno contro cui combatteremmo. In effetti il loro “sì” è parte del nostro “no”. Eppure sospettiamo che la ragione per cui la gente protesta contro i pedofili che abitano nei loro quartieri o per cui vota Bnp non sia né il razzismo né la bigotteria. Ma è la rabbia contro le condizioni di merda, i bisogni che non sono soddisfatti, il disinteresse e la complicità del sistema politico, e l’impotenza (apparente). In questo senso il loro “no” nasce dalla stessa origine da cui scaturisce il nostro.

Quel che si fa, non quel che si è

Nel tentare di dare senso a tutti questi diversi eventi abbiamo visto che la nostra concezione di movimento diventava più ampia, ma anche più frammentata, fino a che non è esplosa. Non siamo più sicuri che sia possibile identificare un movimento. Non pensiamo che si possa concepire il movimento come una cosa, come un’entità (come un nome) che possa essere definita. Invece pensiamo il movimento in termini di verbo (muoversi) delle relazioni sociali. Esempi di questo li vediamo dovunque.

Invece di cominciare con l’attivismo, abbiamo cercato di guardare alla vita e al lavoro in generale. In particolare abbiamo cercato di guardare al nostro lavoro e alle nostre vite. In effetti quando abbiamo iniziato a leggere Il Capitale, lo scopo era cercare di ricavare comprensione non tanto del mondo o dell’economia, ma della natura contraddittoria delle nostre circostanze particolari. Abbiamo preso le mosse dalle più ampie determinazioni, dalle grandi teorie del capitalismo e abbiamo cercato di applicarle ai dettagli delle nostre vite. Al tempo stesso ci siamo mossi anche nell’altra direzione, cercando di capire in che misura i dettagli delle nostre vite e delle nostre azioni possono colpire lo sviluppo del capitalismo.

Qual è la relazione tra attivismo, lavoro e vita?

Questa domanda è centrale dato che la nostra attenzione si concentra su quel che facciamo. Per ciascuno di noi, per ogni persona del nostro pianeta, la vita è divisa in due tipi di fare: da una parte un fare che è contro il capitale (che solo talvolta prende le forme dell’attivismo), e, dall’altra parte, un fare che riproduce il capitale (attività o lavoro). La domanda è complessa (e la rivoluzione è difficile), per almeno due ragioni correlate. Primo, non è sempre chiaro che tipo di fare sia il nostro e in secondo luogo tutti i tipi di fare sono spesso contenuti e intrecciati nella stessa attività.

Quando un’organizzazione rivoluzionaria riproduce strutture gerarchiche o quando essere un attivista diventa come un lavoro, si riproduce il rapporto di capitale, che dopo tutto è fondato sulla incessante imposizione del lavoro. Ma quando usiamo il tempo di lavoro per i nostri progetti – come scaricare o caricare software libero o musica o letteratura comunista da Internet, o insegnare agli studenti Marx piuttosto che l’economia neoclassica e rifiutare di dar loro dei voti – allora non si riproduce capitale e si minaccia la sua stessa esistenza.

Ma in tutto il tempo che riusciamo a rubare al lavoro, spesso ci troviamo a pensare a dei progetti di lavoro, ovvero stiamo lavorando nel nostro tempo libero. E ci siamo anche trovati a usare al lavoro delle competenze apprese attraverso l’attività politica: competenze di direzione della discussione, elaborazione di documenti, capacità di parlare in pubblico e così via.

Forniamo lavoro non salariato per il capitale. Il lavoro casalingo, la scuola sono stati per lungo tempo riconosciuti come lavoro per il capitale. Adesso siamo costretti a passare del tempo al telefono per ottenere condizioni migliori per le apparecchiature, eccetera. Questo è tutto lavoro non pagato, che aiuta la produzione di valore per il capitale e per mercati più competitivi.

Noi abbiamo creato il mondo in cui viviamo. La confusione tra lavoro e non lavoro è parte della risposta capitalistica alle lotte degli anni Sessanta e Settanta, ai tentativi di sfuggire al dominio e all’oppressione in fabbrica, nei campi e negli uffici, in casa, nelle scuole o all’università. Il capitale ci ha inseguito al di fuori del posto di lavoro, è stato costretto ad adottare tattiche di guerriglia, a circondarci nel tentativo di recuperare tutta la nostra attività. Ma dato che il capitale si sforza di ridurre tutta l’attività umana a lavoro astratto, gli spazi in cui viene contestato si espandono. Come scrive Negri: “Il proletariato è dovunque, proprio come il padrone”.

Solo una piccola porzione di questo fare contro e al di là del capitale è coscientemente rivoluzionario e anticapitalista, e noi, attivisti, rivoluzionari, comunisti, lo riconosciamo di rado. Eppure esiste ed emerge da ogni piega della vita sociale, spesso in forme confuse. Ogni giorno la gente offre (dona) liberamente il suo tempo, secondo le sue capacità, per aiutare gli altri nei loro bisogni. Pensiamo a chi aiuta un genitore, magari straniero, a cercare il figlio scomparso. Questo comportamento è umano e questa gente comincia a creare relazioni umane, non mediate dal rapporto di valore. Ripensiamo a questo esempio. È così facile dire: “sì, ma…”. È vero, qualche volta i media partono da un piccolo incidente e incitano al coinvolgimento pubblico solo per vendere più copie. Ma queste azioni accadono ogni giorno, dovunque, gli esseri umani si organizzano secondo la loro capacità e il loro bisogno, il bambino viene rintracciato illeso e nessuno ne parla sulla stampa. “Sì, ma… non è politico”. Pensiamoci meglio. Forse il problema è proprio “la politica”.

Vediamo la lotta tra capitale e anticapitalismo nei luoghi più improbabili. Dopo l’11 settembre “il mondo non sarà più lo stesso”. Ma gli interessi commerciali (l’Autorità portuale di New York e la Lower Manhattan Development Corporation) sono già impegnati a battersi contro le famiglie di quelli che sono morti nel Wtc a proposito della ricostruzione di Ground zero. Quelli che vogliono impedire ogni costruzione nel sito (la maggioranza di coloro che sono andati agli incontri sui piani di ricostruzione) stanno battendosi contro il capitale. La loro azione è azione contro il capitale e in questo senso è parte del movimento anticapitalistico.

Recentemente ci siamo incontrati con un compagno anarchico. Non stava facendo nessun tipo di lavoro politico, però lavorava come bibliotecario in una scuola, e discuteva con gli studenti di argomenti come la guerra contro il terrore. Non sarebbe politico questo? Forse il problema è la nostra comprensione di che cosa è e che cosa non è politico. O forse il problema è la politica.

Conclusione

Come si collega tutto questo con la lettera aperta e la lista dei problemi da voi proposti? Chissà. Forse, come abbiamo suggerito, il nostro pensiero si riferisce alla lettera in maniera tangenziale, per il fatto che troviamo problematico il contesto di riferimento. In particolare siamo interessati al tema dell’attivismo e al trattamento dei movimenti come entità, come qualcosa di potenzialmente definibile. Pensando ai movimenti in questo modo, concludiamo privilegiando quei gruppi che sono stati identificati in anticipo come formulazioni politiche, e non vediamo il modo in cui la maggioranza della popolazione mondiale, attivisti e non attivisti, esiste sia dentro sia contro il capitale. In breve, mentre ogni individuo sul pianeta passa la maggior parte della sua vita producendo e riproducendo capitale, egli passa un’altra parte della propria vita a bloccare la (ri)produzione del capitale e a cercare di superarlo, cercando di creare nuovi mondi possibili. Concentrandoci su tutte le forme di questo contro e oltre il capitale, possiamo cercare di capire il movimento come il muoversi, lo spostarsi, o lo sviluppo di relazioni sociali, ovvero, per dirla con il Marx dell’Ideologia tedesca, come il movimento che abolisce lo stato di cose presente.

Proprio come il nostro pensiero non è fissato e continuerà a svilupparsi, è importante non fissare una definizione del movimento. E come la nostra lotta è una lotta per gettare via e trascendere il nostro status o le nostre identità di operaio di contadino di casalinga, studente o qualcos’altro, così pensiamo che sia importante respingere e superare le nostre identità di attivisti o non attivisti. In effetti pensiamo che il movimento anticapitalistico sia un movimento contro l’identificazione, un movimento contro la definizione.

Traduzione dall’inglese di Franco Berardi (Bifo).